Non so gestire…
… le prese per i fondelli (e dico fondelli perché sono una personcina educata).
Lo ammetto, è un mio difetto.
Cioè, se io ti chiedo “Di che colore è questo bicchiere?” e tu mi rispondi “Questo è un coltello molto affilato” a me subito mi girano i cosiddetti.
Ma sopporto e cerco di chiarire quello che intendevo, ma se tu insisti “Guarda che con questo coltello ci taglio sempre la carne!” allora è chiaro, incontrovertibile, che mi stai prendendo per il culo (mi è passata l’educazione).
Poi mi capita sempre più spesso che la gente faccia il gioco delle tre carte, cioè senza tanto girarci intorno, bara, truffa, imbroglia con le parole: gira intorno alle cose, fa retromarcia, poi fa un’inversione a u, sempre per non fare capire all’altro quello di cui si parla.
Ci vorrebbe un antropologo per comprendere la ragione di questi comportamenti (o forse basterebbe uno psichiatra).
Il biodigestore
In un comune confinante con il nostro, ma posto nella Regione Lombardia, c’è in progetto la realizzazione di un biodigestore, cioè praticamente uno di quegli impianti che trattano i rifiuti organici a fini energetici o concimaioli.
Il comune interessato, detto tra noi, è un zona alquanto squallida (come la nostra, del resto).
Il nostro è un comune ormai occupato per metà da enormi, infiniti capannoni logistici; il traffico è ormai completamente impazzito, quando non è paralizzato, con file di camion e auto infinite per un paese; non si trovano case e chi le ha da affittare se ne approfitta, con cifre da capogiro (ovviamente in nero); ogni tanto ci scappa il morto sulle strade che portano agli insediamenti industriali; accesso e uscita dal casello autostradale a volte sono bloccati (è capitato anche a me proprio venerdì pomeriggio, fortunatamente ho fatto in tempo a invertire il senso di marcia e a prendere la statale); ettari di terreno fertilissimo devastati.
Ma quello che è ancora peggio è che i danni ambientali della logistica sono niente in confronto ai danni sociali che provoca: persone costrette a lavorare con contratti sempre più precari per dieci, dodici ore al giorno, in condizioni a volte proibitive, a volte pagate in parte in nero, infortuni imboscati e malattie vietate, vite stravolte.
A fronte di questa situazione, che male volete che faccia un biodigestore che porterà una decina di camion in più al giorno, contro i tre-quattromila che circolano normalmente?
E invece è proprio in queste situazioni che emerge il lato “ecologico” della popolazione: creazione di un comitato, raccolta di firme, coinvolgimento dei sindaci, manifestazioni, ricorsi, ecc.
NIMBY (inglese per Not In My Back Yard, “Non nel mio cortile”): la mia casa si svaluterà, i miei bambini verranno investiti da TIR colmi di rifiuti melmosi, ci sarà puzza, topi, coccodrilli… Per non parlare delle falde acquifere! Il modo migliore per trovare l’acqua, meglio di un rabdomante, è quello di progettare un impianto di trattamento dei rifiuti: subito sorgerà un comitato che scoprira che sotto quel terreno vi è una falda acquifera che può dissetare tutto il continente sub sahariano.
Ecco, questi comitati a me fanno letteralmente cagare.
Farei il biodigestore solo per buttarceli dentro loro.
Le cose inaspettate
Non so se vi è mai capitato di organizzare un viaggio (sia esso di mezza giornata o di più giorni non importa) e di accorgervi dopo di avere sbagliato, di non essere in grado di affrontare l’impegno, di temere magari di fare anche una brutta figura di fronte agli altri.
Ma ormai è troppo tardi per tirarsi indietro e maledicendo la vostra improvvida decisione (“Perché c… mi è venuto in mente di farlo?”) dovete comunque affrontare a malincuore quanto programmato.
All’inizio dell’avventura siete un po’ tesi, vi trovate ad ascoltare qualunque minimo segnale vi manda il vostro corpo, ma pian piano vi rilassate, vi sciogliete, vi comportate con naturalezza e alla fine il vostro viaggio si traduce in una piacevolissima parentesi, senza che sia successo niente di drammatico.
Ecco, a me è capitato di recente, e più di una volta.
Dovrei rivolgermi a uno bravo?
Il lavoro con gli anziani in casa di riposo
La “managerializzazione” delle attività di cura porta a vedere il lavoro con gli anziani (e i disabili) solo come accompagnamento alla morte.
Le attività vengono standardizzate per risparmiare, principalmente sul personale.
In struttura non entra una persona con una storia alle spalle, ma un “utente”, se va bene un “ospite”, se va proprio male un “malato” (perché anche la sola vecchiaia viene considerata una malattia).
Le strutture pubbliche si salvano un po’ di più, ma quelle private (cooperative comprese) sono un disastro: l’obiettivo è il guadagno.
Non esiste alcuna valorizzazione del personale, chiamato soltanto a rispettare tempi di lavoro sempre più ristretti, evitando qualsiasi “sgarro” dalle procedure.
Certo, ci sono anche le eccezioni, ma sono appunto tali.
Agli inizi della mia carriera, quando un operatore guadagnava circa un milione e duecentomila lire al mese, un giorno vidi la busta paga di una dipendente della cooperativa che lavorava all’interno della nostra struttura: per lo stesso lavoro percepiva ottocentomila lire al mese, un terzo in meno del suo collega.
Le cose oggi non sono cambiate: l’assistenza è la sorella povera della sanità, e quando la sanità sta messa male, l’assistenza è al collasso.
E lo Stato invece di investire e controllare, prima appalta i servizi al massimo ribasso, poi manda i NAS, come se militarizzando i controlli si risolvessero i problemi.
Come ti chiami?
“Come ti chiami?” chiede il carabiniere (anzi, il colonnello dei carabinieri) e l’altro gli si rivolge dandogli del lei.
Si dirà che è una cosa di poco conto, ma non c’è alcun motivo per cui un carabiniere debba dare del tu a un’altra persona, fosse anche Satana in persona.
Anzi, soprattutto se è Satana in persona!
La camminata (e la caduta)
Oggi pomeriggio ho voluto fare una delle mie solite camminate “salutiste”.
A un certo punto, ho pensato di introdurre una piccola deviazione campagnola nel mio percorso e ho preso un sentiero in mezzo ai campi.
Dopo qualche decina di metri ho deciso di tornare sulla strada, ma senza accorgermene ho preso una deviazione del sentiero originario.
Arrivato ai bordi della strada, mi sono accorto che ci stava un piccolo canale da superare, uno di quelli dove scorre l’acqua per irrigare, tanto per intenderci, fortunatamente asciutto.
E’ stato a quel punto mi sono accorto che avevo preso un sentiero diverso da quello precedente. Avrei potuto tornare indietro e tornare sulla retta via, ma mi sono detto: “E che ci vorrà mai a saltare questo piccolo fosso?” e così, senza prendere alcuna rincorsa, ho allungato la gamba (quella sinistra, per la precisione) e ho spiccato il volo (cioè il salto).
Soltanto che il piede, collocato ai margini della suddetta gamba, invece di aggrapparsi al margine della strada, ha pensato bene (bene per modo di dire) di appoggiarsi alla sponda del suddetto canale che, essendo ovviamente ripida, ha causato lo scivolamento del piede stesso e la caduta franosa del suo proprietario, a pancia in giù sull’erba bagnata.
Accertatomi che non vi fosse nessuno nelle vicinanze (anche perché il clima e la nebbia in arrivo non favorivano certamente le camminate), mi sono rialzato, osservando il fango sulle scarpe, sui pantaloni della tuta e sulla giacca a vento, concludendo con un “Non è più il tempo di fare certe cose!“
Comunque buon anno!
Sto maturando…
Lo so, l’ho detto tante volte, ma hai visto mai che continuare a dirlo valga un po’ come scacciapensieri?
Sono tanti i segni della… maturità.
Forse all’inizio non ci fai caso, ma se li osservi con il senno di poi, ti accorgi che qualcosa dentro di te sta cambiando, e più velocemente di quanto ti aspettassi.
Hai comprato la mountain bike elettrica perché ti piace portare in giro una batteria ricaricabile, oppure perché con la bici normale le salite diventavano sempre più faticose?
Frughi nella memoria alla ricerca del nome di quell’attore famoso per creare suspence, oppure perché non ti viene proprio, ce l’hai – come suol dirsi – sulla punta della lingua?
Ti chiedi se hai già detto ai colleghi quella cosa da fare e come farla per essere sicuro che la facciano, oppure perché non ti ricordi cos’hai detto nella riunione di ieri e devi andare a rivederti gli appunti?
In casa mia non lo sa nessuno, ma l’hanno scorso ho fatto una visita all’ambulatorio dei disturbi cognitivi.
Mi ci ha mandato il medico, perché le ho esposto i dubbi sui miei problemi di memoria.
Dapprima ho fatto una visita dal neurologo, il quale mi ha prescritto alcuni esami da fare: una risonanza magnetica al cervello e una serie di esami del sangue. Dopodiché ho fatto un test di memoria approfondito con un’altra dottoressa. Alla fine il neurologo ha diagnosticato un “tutto normale in relazione all’età”, affibbiandomi soltanto un integratore di vitamina B12 e un “arrivederci, se dovesse avere altri problemi ci contatti pure”.
Sarà, ma io mica sono così sicuro.
E poi quell’arrivederci…
Mah…
Un altro morto sul lavoro…
Stavolta è toccato alla nostra provincia, a un paese a pochi chilometri dal mio
https://www.ilpiacenza.it/cronaca/infortunio-vetreria-borgonovo-donna-morta-schiacciata.html
Conosco quella fabbrica per esserci passato davanti centinaia di volte andando a lavorare.
Ai cambi turno vedevo le operaie e gli operai entrare e uscire.
Gli operai, quella bizzarra categoria di persone vestite con strane tute, che in passato ogni tanto protestavano e votavano comunista.
Pare che siano quelli che più spesso escono di casa e poi non tornano più.
Nella mia breve “carriera” di direzione le (poche) richieste di derogare dalla normativa sulla sicurezza (i periodi minimi di riposo tra un turno e l’altro) le ho ricevute proprio dai lavoratori. Una l’ho ricevuta da un dirigente.
Ovviamente le ho rispedite tutte al mittente.
Sulla sicurezza non si deroga.
E l’abusivo ha pagato la sosta. A me
Caro M., ti scrivo pubblicamente per chiederti scusa per diversi motivi. Il primo: non sei neppure più un parcheggiatore abusivo, come tutti ci ostiniamo a definirti, semplicemente perchè non ne esistono più in natura di parcheggiatori abusivi, da quando sono stati introdotti i ticket con la targa impossibili da trafugare e rivendere. Resti un assiduo frequentatore del parcheggio dell’ospedale, in via XXI Aprile. Cerchi di vendere le tue cose, immagino tu sia arrivato dall’Africa, e scusami se non ho neanche fatto attenzione a cosa vendi. In realtà, appena ieri mattina ho parcheggiato l’auto in un posto libero (ce ne erano diversi), ho subito pensato, quando mi hai salutato con educazione, che mi volessi rifilare qualcosa ma non ho fatto caso a cosa.
Voleva vendermi qualcosa. Non avevo soldi. Avrei preso una multa.
Scusami per aver pensato al primo pretesto buono per liberarmi di te: non ho soldi. Vero, peraltro: neanche un euro di moneta, neanche una banconota dentro lo zaino. Andavo di fretta e sì, lo ammetto: prevedendo una sosta veloce, avevo pensato di non mettere il tagliando. Pubblica ammissione di furberia da due soldi, la mia. Tu hai insistito per parlarmi e io intanto mi allontanavo da te, e ti sventolavo sotto il naso come stupido sberleffo la carta di credito fiammante per ribadire non-ho-soldi e quindi, sottinteso, non aspettarti elemosina da me. Scusami perchè in realtà, vedendomi allontanare, mi stavi avvertendo di non lasciare l’auto senza ticket, «i controlli arrivano proprio a quest’ora del mattino». E mentre lo dicevi indicavi l’orologio. Scusami M., perchè ho continuato a ripeterti che non avevo un soldo e chissà che cosa hai capito. No, anzi. Hai capito benissimo. E mentre ti guardavo e tu guardavi me, neanche a farlo apposta, abbiamo visto arrivare l’auto del sorvegliante. Una sequenza di multe e io che – persuasa dagli eventi a essere una buona cittadina e decisa a fare il ticket – ho iniziato a frugare il fondo dello zaino. Senza arrivare a racimolare più di 60 centesimi. Un miraggio l’euro e 5 centesimi necessari. Allora tu mi hai detto: dai, non c ‘è problema, te li do io i soldi. E ti sei fiondato al parcometro più vicino. Avevi memorizzato persino la targa della mia auto. Ho preso dalle tue mani il biglietto e sono andata a metterlo a bordo. Ma ero così basita che non ce l’ho fatta. Te l’ho dovuto dire: io non ci credo che esistano persone che fanno così, senza neanche conoscersi. Tu non mi conosci, M., e io quell’euro potrei non passare più a lasciartelo. Mi viene la tentazione di non credere che esisti davvero. E poi ci siamo abbracciati, e tu sorridendo mi hai detto: a volte i poveri aiutano i meno poveri. Hai ragione, M. Mi hai fatto venire un groppo in gola e gli occhi umidi. Siccome temo (ma magari sbaglio) che tu questa lettera non la legga, stamattina passerò in via XXI Aprile a lasciarti una copia di “Libertà”. E scusami se non volevi che questa storia diventasse di tutti. Ma non ce l’ho proprio fatta a tenerla solo per me.
Dal quotidiano “Libertà” del 21 settembre 2022
Una giornata importante
Venerdì per me sarà una giornata importante.
Dovrò sottopormi a un controllo medico per stabilire se le mie arterie potranno sopportare un rilevante intervento di chirurgia plastica per ricostruire ciò che è stato distrutto per eliminare il cancro.
Sarà un percorso lungo e difficile, lo so, ma sarà una tappa verso la (quasi) normalità, che terminerà probabilmente a dieci anni di distanza da quel giorno di fine luglio 2014 quando, iniziando a farmi la barba, scoprii uno strano gonfiore sul collo e da lì partì l’incubo.
A volte mi sembra di rivivere quei momenti, ma comunque ora fanno meno male, ci si abitua.
L’uomo si abitua a tutto.