Il giallo
Venerdì ho acquistato un giallo, anzi, per essere precisi un “classico del giallo“.
L’ho preso non soltanto per una lettura natalizia “leggera”, ma anche (o forse soprattutto) per rivivere, se possibile, una abitudine che mi ha accompagnato per diversi anni della mia adolescenza.
Le vacanze di Natale mi davano un po’ di tregua dalle incombenze scolastiche e allora ne approfittavo per darmi alla lettura dei miei libri preferiti: i gialli. Erano venduti in edicola, costavano poco e davano l’opportunità di conoscere autori di livello: Ellery Queen, Agatha Christie, Erle Stanley Gardner (quello di Perry Mason), S. S. Van Dine (quello di Philo Vance), Rex Stout. Più tardi scoprii Cornell Woolrich e, quando iniziarono a pubblicarlo negli Oscar Mondadori, Arthur Conan Doyle.
Oggi che questi libri costano pochi euro e mi posso permettere – volendo – anche le edizioni più costose, ricordo con nostalgia i tempi nei quali bisognava mettere da parte le mance per acquistare qualche libro (e la biblioteca del mio paese era praticamente inesistente).
Di giorno non c’era molto tempo per leggere, perché la casa si animava di parenti e i sapori dei piatti cucinati da mia madre mi distraevano, ma la sera era bello starsene a fare le ore piccole a leggere, a letto, nella mia stanza, protetto come può esserlo un ragazzo circondato dall’affetto dei genitori.
Beh, non è che un libro possa fare tornare quei momenti: oggi altre persone mi circondano, ma la nostalgia a volte fa bene.
Insomma, per farla finita mi sono abbonato ai classici del giallo.
Ecco.
Il 2023 sarà un anno in giallo.
P.S.: è arrivato sul fascicolo sanitario elettronico il referto dell’ultima risonanza magnetica: nessun segno di recidiva.
Evvai!
Ricordi d’estate
L’estate ormai se n’è andata.
Anche se il tempo è mite per la stagione, le torride giornate estive sono ormai un ricordo.
Per me estate significa soprattutto bicicletta.
Il piacere di uscire al mattino presto, di lasciarsi alle spalle i capannoni della logistica che ormai hanno invaso la pianura attorno al mio paese (e non solo) e dirigersi verso le colline, quelle della Val Tidone o dell’Oltrepò pavese.
Oppure percorrere la pianura che costeggia il grande fiume (a proposito, vi ho mai detto che quest’estate mi sono perso tra gli argini del Po? In casa si stavano preoccupando, perché ero in ritardo rispetto al mio normale orario di ritorno).
Pedalare e liberare la mente per me sono due attività che procedono insieme, ma purtroppo quest’estate è stata troppo breve.
Aspettiamo la prossima.
Eugenio Scalfari
Quindici giorni fa avrei voluto scrivere un posto sulla morte di Eugenio Scalfari (non mi esprimo sui motivi per cui non l’ho fatto).
Perché la morte di Scalfari mi ha riportato indietro di 45 anni della mia vita, a quel gennaio del 1976 quando uscì Repubblica.
Erano i primi anni della mia turbolenta esperienza politica, alquanto disorganizzata.
Gli anni del liceo, delle discussioni con i compagni di scuola.
Ma soprattutto erano gli anni delle speranze e delle illusioni.
Le speranze che saremmo riusciti a cambiare il mondo, in meglio ovviamente.
Le illusioni che ci avrebbero permesso di cambiarlo, il mondo.
E allora negli anni successivi Repubblica, insieme a l’Unità, diventarono i giornali di riferimento.
Nelle grandi occasioni si potevano comprare tutti e due e si tenevano sotto al braccio, come i grandi intellettuali. E Scalfari era una presenza autorevole, tranquilla e ragionata.
Oggi l’Unità non c’è più (e nemmeno il PCI) e Repubblica si legge on line.
E non si può tenere il tablet sotto al braccio, perché scivola giù…
Confesso che (non) ho vissuto
Quando si diventa vecchi (come il sottoscritto) basta poco a scatenare una caterva (o valanga) di ricordi.
E’ tipico dei vecchi, come il controllo dei cantieri (e della prostata).
E’ bastato che oggi pomeriggio youtube mi proponesse improvvisamente questa vecchia canzone del 1980 per provocare uno smottamento di ricordi e rimpianti che mi porto dietro ancora adesso e chissà per quanto.
Avevo vent’anni allora, era il periodo delle discoteche, della spensieratezza, della “ricerca” delle ragazze (in gran parte infruttuosa, ahimè). Era il periodo della mia Alfasud appena comprata, dell’inizio dell’università, della presenza di genitori, amici e parenti accanto e intorno a me. E’ stato il periodo delle occasioni, in gran parte perdute (per merito mio, s’intende).
E allora mi è venuto in mente che il libro della mia vita si potrebbe intitolare come il titolo di questo post, speculare al libro Confesso che ho vissuto di Pablo Neruda, un libro che mi ha sempre incuriosito ma che non ho mai né comprato né letto.
Perché non ho vissuto?
E’ il grande dilemma della mia vita.
E’ vero che a vivere c’è tempo fino all’ultimo giorno della nostra presenza su questa bislacca terra, ma c’è un tempo per tutte le cose, e chi non ha vissuto il proprio passato è difficile che riesca a vivere il presente. Peggio ancora il futuro.
Oliva Denaro
Consigliato, consigliatissimo.
Quando hai alle spalle un libro come “Il treno dei bambini” non è facile tornare sulla scena, ma Viola Ardone c’è riuscita.
La storia parte un po’ lenta, assorbita dai tempi della Sicilia, dal caldo diurno e dai rosari serali, ma con il passare delle pagine sale di tono e la protagonista acquista uno spessore di tutto rispetto (mi ha ricordato un po’ le figure dei romanzi della Ferrante).
La ragazza che rifiuta il matrimonio riparatore nella Sicilia degli anni sessanta, la “brocca rotta” che nessuno vorrà più, salvo colui che proprio l’ha rotta, come la definisce la società di quell’arco spazio-temporale, che però conquista la libertà di scegliere.
E sceglie, sceglie lo studio, il lavoro, il marito e la sua scelta si ripercuote sulle persone che le stanno vicine, sui parenti, sul paese.
Ma non c’è solo questo.
Ci sono anche gli stessi protagonisti del libro precedente, cioè i comunisti, quelli che volevano la modernizzazione e la laicizzazione della società (anche in Afghanistan, tanto per ricordarlo a chi adesso piange lacrime di coccodrillo) e che offrono il supporto legale a Oliva, anche se la legge dell’epoca è molto indulgente verso gli uomini.
Un po’ di nostalgia sorge a pensare quando penso agli anni ottanta e novanta, alla mia esperienza, quando la politica, con tutti i suoi difetti, riusciva ancora a mobilitare idee e persone, quando c’erano le famose ideologie, oggi demonizzate ma che altro non erano che idee applicate a una visione della società e del suo sviluppo.
Magnifica la figura del padre che con i suoi silenzi la sostiene: “Poco fa mi hai chiesto che cosa faccio. Questo faccio io. Se tu inciampi, io ti sorreggo”.
Una frase che da sola vale tutto il libro.
A volte penso…
… a quante cose avremmo potuto fare insieme.
Anzi, a quante cose avremmo potuto condividere insieme, che è diverso.
Ciao Raffaella
C’era una volta un’Italia più povera, più bacchettona, più rurale, quasi pezzente, dove poteva capitare che una famiglia povera (la mia) abitasse accanto a famiglie ancora più povere e fosse l’unica ad avere un televisore.
E allora poteva capitare che al sabato sera ci si ritrovasse tutti su un divano mezzo sfondato a guardare la televisione e quando c’era lei era sempre una festa.
E lei era Raffaella Carrà, la ballerina/presentatrice bionda verso la quale mai ho sentito pronunciare dalle donne che la guardavano una parola di critica o di disapprovazione.
Ci sono persone che diamo per scontato che ci saranno sempre; anche se scompaiono dalla scena per lungo tempo, sappiamo che esistono, pronte a tornare alla ribalta. Una di queste è stata sicuramente Raffaella, che con il passare degli anni è diventata ancora più bella e affabile, sempre con il sorriso sulle labbra, mai saccente.
Mi piace ricordarla così, in versione maghella e nello splendore dei suoi quarant’anni.
C’era una volta…
C’era una volta in un paese confinante con il mio una grande, enorme, smisurata fiera di Pasqua, anzi per essere precisi Fiera dell’Angelo.
Nata in un tempo del quale si è ormai persa la memoria, la Fiera dell’Angelo si chiamava così perché il momento culminante coincideva appunto con il lunedì di Pasquetta.
Con il passare degli anni la fiera era stata un po’ riordinata, ma si trattava comunque di una pacifica invasione di un Comune di poco meno di ottomila abitanti.
La parte del leone la faceva il luna park, con giochi e attrazioni che non si vedevano da nessun’altra parte: strani oggetti volanti che ti sbatacchiavano su e giù; corse di cavalli di plastica che avanzavano a furia di biglie lanciate in apposite buche; misteriose case scricchiolanti con spaventosi mostri all’interno.
C’era poi il settore delle macchine agricole, di tutti i tipi e dimensioni; quello del mercato tradizionale, con i venditori urlanti e sempre pronti al “fantastico sconto”; quello del mercato dei prodotti locali; quello delle auto, che potevi vedere da vicino e anche salirci sopra, in tempi nei quali i tour virtuali di internet non esistevano ancora; quello del bestiame, senza dimenticare le bancarelle di prodotti alimentari, dolci, salamelle, patatine e via dicendo.
E tutt’intorno al paese una distesa di auto parcheggiate, perché alla Fiera dell’Angelo arrivavano da tutte le parti.
La Fiera dell’Angelo era un paradiso per i bambini, un appuntamento imperdibile per gli adolescenti, un diversivo interessante per gli adulti. Chi non aveva altri programmi si ritrovava alla Fiera una, due tre volte, finché il portafoglio non dava forfait.
Il montaggio delle giostre iniziava una settimana prima di Pasqua e anche la loro comparsa era uno spettacolo. Alcune di loro iniziavano a spillare soldi dal venerdì, con i genitori che cercavano di tenere a bada i bambini, spiegando che il loro budget non poteva essere intaccato ancora prima che si aprissero le danze vere e proprie.
Il groviglio di suoni, colori, sapori era sbalorditivo.
Era, perché da due anni tutto questo non esiste più.
Non esistono le giostre, i panini con la salamella, i banchi con il formaggio puzzolente, i tiri a segno, i palloncini.
Non esiste più il viaggio con il papà verso i suoni e le luci di quella gioia momentanea ma intensa che ti poteva dare “La casa degli spiriti“, con tanto di facce dei mostri in primo piano, il pavimento mobile, il corridoio con gli specchi deformanti, oppure le astronavi girevoli o il bruco mela.
Era, e chissà quando torneranno queste nostre tradizioni, che un tempo forse ci facevano sorridere o sbuffare e che invece adesso vorremmo rivivere, anche solo per qualche istante.
Perché dobbiamo sconfiggerlo questo stramaledettissimo virus e uscirne un po’ migliori.
Ma forse anche questa è un’illusione…
Spero abbiate trascorso una serena Pasqua.
P.S.: questo nuovo editor di WordPress fa letteralmente cagare. Se non riesco a tornare all’editor classico…
Mi ricordo…
C’è un episodio della mia gioventù che ancora oggi mi trottola per la mente.
Non so se fa parte delle occasioni perdute o degli scampati pericoli.
Avevo circa vent’anni (mese più, mese meno) ed era il periodo delle discoteche.
Eravamo quattro amici (mica sempre al bar) che uscivano sempre insieme, ma il mondo è (ed era) piccolo e nei locali della zona si incontravano spesso altri giovani del paese.
Tra le discoteche che frequentavamo periodicamente ce n’era una nell’Oltrepò pavese. Era un locale relativamente piccolo, con al piano superiore un bar ristorante che a quei tempi era molto in voga. Il locale presentava due piste da ballo, una al centro e la seconda, più piccola e riservata, posizionata su un piano leggermente rialzato.
Quella sera ero vestito come allora andava di moda: stivaletti scamosciati, pantaloni di velluto nero e una maglione blu (era un maglione tutto particolare, con una striscia colorata che prendeva il tronco e una manica, insomma una roba un po’ inconsueta): ero convinto che lo scuro mi donasse.
Girovagavo per il locale da solo, quando mi sedetti su una specie di muretto che costeggiava la seconda pista da ballo. Pensavo di essere un figo, non c’è dubbio.
A un certo punto il mio sguardo si incrociò con quello di una ragazzina che stava anch’ella ai margini della pista. Era una ragazzina minuta, bionda con i capelli corti (io ho sempre avuto un debole per le ragazzine dai capelli biondi e corti; però con il tempo ho imparato ad apprezzare anche le altre), molto carina (almeno così mi sembrò quella sera).
Il gioco di sguardi andò avanti per un bel po’, finché uno dei miei amici non venne a recuperarmi prima che potessi “farmi avanti” (ammesso che l’avessi fatto).
Ecco, quel gioco di sguardi me lo ricordo ancora adesso.
Andammo altre volte in quel locale e io cercai di nuovo quella ragazza, ma non la vidi mai più. Non incontrai mai più uno sguardo simile al suo.
La stagione delle discoteche poi finì presto e io rimasi sempre con quel dubbio: se mi fossi fatto avanti per tempo, come sarebbe finita?
Con il senno di poi, penso di averle evitato inutili pene (sostantivo femminile plurale).
P.S.: si sarà capito che a quel tempo ero un pochino imbranato…
Malastagione
Anzitutto buon anno a tutte/i.
Ieri, primo giorno dell’anno, ho deciso di tenere spento il cellulare e non potete immaginare (a meno che qualcuno l’abbia fatto o lo faccia regolarmente) di come mi sia sentito bene. Poi stamattina ho dovuto accendere e… la magia è finita.
Comunque nella prima giornata dell’anno, tra semi lockdown all’italiana, freddo e neve, mi sono dedicato alla lettura. Dopo avere terminato Psicologia della stupidità, (ci tornerò su, perché la materia è infinita) ho pensato – in ricordo degli anni della mia adolescenza, quando aspettavo la vacanze di Natale per spararmi i gialli che non potevo leggere in periodo scolastico – di dedicarmi a qualche bella storia poliziesca e, aperta l’anta del mobile libreria in salotto, mi sono trovato di fronte questo libro.
Pubblicato dieci anni fa, regalatomi con tanto di dedica, è rimasto a riposo per un decennio.
Forse è vero che i libri decidono loro quando è il momento di leggerli. C’è differenza tra acquistarli e leggerli, sono due momenti diversi che esigono predisposizioni diverse.
E allora ieri mi sono immerso in questa storia che “profuma di ragù e vino rosso”, ambientata tra i monti della bassa modenese, protagonista un ispettore della forestale detto “Poiana” e una serie di altra varia umanità tratteggiata con leggiadria dai due autori con una scrittura che fila via liscia come un bianco frizzante quando la calura umida delle nostre zone spinge a rinfrescarsi dentro.
Ho messo da parte per un giorno tutte le paturnie del lavoro, della famiglia, i ricordi degli ultimi morti di Covid tra la gente che conoscevo; ho trovato anche il tempo di qualche partita a carte con mia figlia, annoiata dalla reclusione domestica.
Un rinnovato ringraziamento (tardivo?) a chi mi regalò questo libro.
Chissà che non ci sia spazio per qualche altra storia di questo duo. Chissà…