Si possono usare cose cattive per compiere buone azioni? (- 6)
A volte capita che nei film cosiddetti “di cassetta” ci siano situazioni che inducono a riflessioni.
Per esempio, nel film Arma letale 2, a un certo punto i poliziotti Martin (Mel Gibson) e Roger (Danny Glover) rimangono sconcertati dal ritrovamento, in un container, di una montagna di soldi provenienti da attività illecite che stanno per lasciare il suolo americano.
Roger prende in mano un pacco di dollari e, con il sudore freddo che gli riga le tempie, dice: “Con questi ci potrei pagare tutta l’università per mia figlia“.
“E allora prendili” gli risponde Martin.
“Ma sono soldi sporchi” balbetta Roger, indeciso.
“Sì – ribatte Martin – ma tu ci faresti una cosa buona“.
La scena termina che ovviamente Roger i soldi non li prende, perché sono appunto sporchi, ma la vexata quaestio rimane: da una cosa cattiva può nascerne una buona?
Io credo di no, e non perché sia superstizioso, ma perché le cose cattive si portano dietro una sorta di maledizione che ne inficia l’efficacia, che confonde i gesti e le azioni di chi pensa di usarle per i propri interessi.
Meglio i soldi guadagnati.
P.S.: meno sei.
Il bicchiere
Vi sono persone che nella vita lo stesso bicchiere lo vedono in due modi completamente diversi: mezzo vuoto o mezzo pieno.
Le prime si lamentano principalmente di quello che non hanno, che a loro giudizio gli spetterebbe quasi di diritto.
I secondi preferiscono ringraziare il cielo di avere quello che hanno.
Ma non basta.
I primi incolpano gli altri per quello che non hanno. La colpa è sempre di qualcun altro e quindi spetta agli altri fargli avere quello che a loro manca. Stanno lì ad aspettare, a differenza dei secondi, che se vogliono colmare il vuoto si tirano su le maniche, senza rompere le scatole agli altri.
Le persone del primo tipo adottano sempre le soluzioni più facili, più ovvie, quelle che comportano meno responsabilità, perché la parola responsabilità le fa sobbalzare sulla sedia. Le persone del secondo tipo cercano invece le soluzioni più efficaci, anche se sono le meno facili e per questo più soggette a errori, che quando arrivano vedono puntualmente i primi gridare (perché i primo non parlano, gridano): “Visto? Te l’avevo detto io!”
Sono due modi diversi di affrontare la vita.
Oggi è pieno di persone del primo tipo, che sovrastano quelle del secondo.
Una cascata proprio.
E quest’anno saranno sessanta…
Con questa emergenza sanitaria e con tutti i casini che ha provocato, mi stavo quasi (quasi) dimenticando che quest’anno compio sessant’anni.
Cioè, sono passati due decenni dall’inizio del nuovo millennio, da quando ci preoccupavamo che l’anno 2000 avrebbe fatto saltare tutti i nostri sistemi informatici, riportandoci all’età della pietra.
E invece non è successo niente, per lo meno quell’anno, ma quello dopo abbiamo assistito increduli a due aerei che abbattevano due immense torri a New York, nel cuore dell’America, e all’inizio di una lunga guerra ai terroristi, cioè a quegli stessi che una settimana prima li finanziavamo come nostri amici.
E l’anno successivo ci siamo ritrovati in tasca una moneta nuova, con tanti spiccioli che pensavamo che valessero niente, memori degli spiccioli della lira, e invece questi avevano un valore completamente diverso.
E poco dopo è nata mia figlia.
Insomma, il nuovo millennio è partito alla grande, mica ciufoli.
Avevo ancora grandi progetti a quel tempo, forse grandi illusioni. Poco dopo avrei lasciato definitivamente la politica e dopo qualche anno sarebbe andato in crisi il mio matrimonio.
La vita è proseguita con alti e bassi, mi dedicavo con frenesia alla scrittura, pubblicando qualcosina qua e là e sognando di diventare uno scrittore.
E’ stato alla fine del primo decennio che ho incontrato… ma lasciamo perdere. Le ferite ormai ricucite vanno lasciate stare, al massimo ogni tanto si accarezza la cicatrice.
Il secondo decennio è iniziato con la ricomposizione del mio nucleo familiare, ma non ho nemmeno fatto in tempo a prenderne coscienza che ecco che è arrivato lui: il cancro. Una presenza con la quale mai mi sarei aspettato di fare i conti: ad agosto saranno sei anni che c’ho a che fare.
Sei anni sono lunghi e non è ancora finita.
Certo, a volte penso che in fondo sono stato anche un po’ fortunato: non tutti possono raccontare di essere ancora vivi dopo un cancro, ma la battaglia per tornare normale non è ancora finita. Questo maledetto virus l’ha rallentata, ma sono pronto a riprenderla.
Il prossimo decennio sarà quello della pensione, di un cambio ancora più radicale delle abitudini di vita. Sarà anche quello della fine degli studi di mia figlia (vuole fare l’assistente sociale) e della sua entrata nel mondo del lavoro (spero). Chissà, forse anche quello della creazione di una famiglia sua.
Forse sarà anche il decennio del mio rincoglionimento definitivo.
Sarà il decennio in cui ci lasceremo alle spalle questa brutta epidemia? In cui diventeremo un po’ meno coglioni?
Speriamo.
Intanto oggi è arrivata una buone notizia: liberata Silvia Romano.
La favola del colibrì
Gira in questi giorni in rete una favola, la cosiddetta favola del colibrì.
Vi possono essere diverse versioni, ma la morale è sempre la stessa.
Brucia la foresta.
Tutti gli animali scappano, eccetto un colibrì che fa la spola tra l’incendio e il fiume: si riempie il becco e scarica l’acqua sulle fiamme.
L’incendio manco si accorge di questa goccia d’acqua, ma lui continua imperterrito la spola.
Anche quando il leone gli chiede: “Ma che fai? Pensi veramente di spegnere l’incendio con l’acqua che porti nel becco?”
E il colibrì: “Io faccio la mia parte“.
Ci eravamo dimenticati della morale nascosta in questa storiella: nei momenti di difficoltà conta di più il coraggio che la forza.
Oggi tutti abbiamo paura (chi non ha paura è un imbecille, pericoloso per sé e per gli altri), ma qualcuno la paura riesce a controllarla, a governarla, continuando a fare il proprio lavoro (qualunque sia); qualcun altro invece se la fa sotto e si dilegua.
Molti di quelli che si dileguano sono quelli arroganti, quelli del “se sbagli sei fuori“, quelli che chiamano “call” le chiamate (parla come mangi, coglione). Che poi si ripresenteranno puntuali a raccogliere i frutti del lavoro degli altri, come hanno fatto per tutta la vita.
Esseri inutili.
Bisogna saper perdere
Che poi spesso non è neanche una sconfitta nel vero senso della parola: trattasi di ritirata, tregua, armistizio.
Sia come sia, non si può sempre vincere.
Non si può vincere soprattutto se l’avversario sta per essere distrutto.
Sconfiggerlo è un conto, distruggerlo un altro.
Un avversario distrutto diventa un nemico, che non scompare, ma si ricompone e vuole fartela pagare.
Comunque queste sono tutte elucubrazioni di un quasi sessantenne.
Non fateci caso.
Sto qui…
… anche se non appaio.
Sono periodi convulsi, complicati questi.
Il caldo non molla.
Due settimane fa ho fatto due uscite ravvicinate in bici e poi sono stato chiuso in casa per due giorni con la febbre a 39 e la diarrea (e non dite: riguardati alla tua età!).
Manco il lavoro molla.
Dalla seconda metà di luglio dovrebbe rallentare, permettendomi di fare qualche settimana di ferie.
E poi c’è tutto il contorno che non gira…
Ma quando c’è la salute…
P.S.: comunque mi sono comprato la mautan baic!
Noa
Fatico a osservare questa foto.
Il primo articolo che ho letto stamattina sul giornale è stato quello dedicato alla sua triste vicenda.
Ma la sua foto ha continuato a rimbalzarmi nella mente per tutta la giornata.
Il giornale non accennava a cosa le fosse successo da piccola, che avesse scatenato la sua condizione di sofferenza.
Ma qualsiasi cosa le sia accaduto, per lei deve essere stato talmente devastante da non poterne più reggere il peso.
Io non so “se poteva essere curata”. Non sono un medico e neanche uno psicologo. Sono sicuro che i suoi genitori abbiano tentato di tutto per salvarla, ma forse entrare in contatto con la sua mente era ormai impossibile.
Noa (un nome che ricorda mondi antichi, quasi leggendari) è tornata da dove tutti veniamo: dal nulla o da qualcosa che non sappiamo neppure immaginare. Ora si starà già dissolvendo oppure starà viaggiando verso quel mondo che il suo nome ci fa immaginare fantastico.
In qualsiasi posto sia, si merita tutto il nostro rispetto.
E’ finita?
Più di una volta mi sono chiesto se fosse finita per me l’epoca del blog.
Vengo una volta la settimana, due se va bene (a volte nemmeno quelle), frequento raramente i blog degli altri, molti dei vecchi amici/amiche se ne sono andati, i commenti sono sempre più rari, così come le visite.
Eppure, malgrado tutto, per me è difficile chiudere tutto.
Su queste pagine (e su quelle precedenti) ho trascorso momenti bellissimi, ho condiviso tanto, ho conosciuto diverse persone (qualcuno anche “di persona”). Ho riso, ho pianto, ho sofferto, mi sono preoccupato e ho gioito.
Ora mi si stringe il cuore quando clicco sul nick di qualche amico/a e salta fuori una pagina non trovata, un blog cancellato oppure rimasto fermo ad anni fa.
Ho iniziato il 26 luglio 2006, quasi tredici anni fa.
In tredici anni ne sono accadute di cose… Ho fatto scelte, alcune giuste, altre sbagliate. Me ne assumo tutte le responsabilità, senza dare la colpa a qualcun altro.
Questo nick mi ha tenuto compagnia nei momenti bui, in quelli difficili, è stato quasi un alter ego che mi ha seguito volontariamente, consapevolmente, costantemente, delicatamente. Come faccio a dargli il benservito?
Io proseguo, può darsi che abbia ancora bisogno di lui…
Tempi grami
Tempi grami mi attendono, in questa primavera che non vuole saperne di dispiegare le ali.
Non sto parlando della mia salute, che si mantiene regolare, ma di altre vicende, che purtroppo mi rendono la vita più pesante di quanto già sia.
Pensavo proprio stasera, mentre cenavo, come io riesca malgrado tutto a rimanere in equilibrio: altroché camminare sul filo!
A volte sento il bisogno di condividere, di sfogarmi, di chiedere consiglio, forse anche aiuto.
Ma malgrado tutto la fame non mi manca, il sonno neppure e la panza non se ne va neanche a minacciarla!
Almeno facesse bel tempo e potessi andare in bicicletta, ma qui c’è un tempo da polenta…
Uffa!
Cessata attività
Oggi è iniziata la svendita in uno storico negozio di abbigliamento del mio paese che chiude i battenti per cessata attività.
Quando ho visto i manifesti in giro mi ha preso un senso di nostalgia, come se stesse andandosene un altro pezzettino di me e della mia storia.
Il negozio in questione (non proprio un negozietto, piuttosto una media struttura) iniziò la sua attività una trentina di anni fa, in un paese vicino al nostro, posizionato in bella vista sulla via emilia. Era uno dei pochissimi negozi già allora aperti la domenica, dove si potevano trovare vestiti “popolari” accanto a quelli un po’ più costosi, di marca.
Con l’apertura del centro commerciale, si trasferì nel nostro paese, ampliando l’offerta e la superficie di vendita.
Ricordo con nostalgia quando ci si trovava con amici e conoscenti a spulciare tra camicie, magliette, pantaloni, mutande, tute da ginnastica.
Era la condivisione di qualcosa che si è perso nel tempo.
Può sembrare banale dirlo, ma anche un negozio può dare il senso di appartenenza a una comunità.
Negli ultimi anni i clienti sono andati diminuendo sempre di più. Ultimamente il negozio era quasi sempre deserto. Disertato dai giovani, che preferiscono le grandi catene in città o nei grandi centri commerciali; i “diversamente giovani” (come il sottoscritto) evidentemente hanno ridotto drasticamente i consumi, anche nell’abbigliamento. Per non parlare del commercio on line.
E così domani mattina andrò a fare un giro – forse l’ultimo – nel negozio che mi ha visto acquistare quei vestiti che per mia figlia sono inesorabilmente da bollare come “da vecchio”, ma che per me invece rappresentano un pezzo della storia mia e del mio paese.
Del nostro povero paese…