Aiuta il prossimo tuo…
Due giorni fa ho avuto questa discussione con mia figlia.
“Papà – mi ha chiesto – quando siamo tornati da tennis hai visto camminare sul marciapiede verso casa nostra una bambina?”
Effettivamente avevo visto una bambina sul marciapiede, con lo zaino in spalla, e mi aveva sorpreso un po’ vederla a quell’ora, alle sette di sera, al buio, camminare da sola.
“Sì – ho risposto – l’ho vista. Chi era?”
“Quella era A., la mia compagna di classe.”
“E perché non me l’hai detto subito, che avremmo potuto darle un passaggio?”
“A. fa molte assenze da scuola. Non fa mai i compiti. Le hanno tagliato i capelli perché aveva i pidocchi. E non si lava mai e puzza. Ne abbiamo anche parlato a scuola, quando lei non c’era.”
A. vive nelle case popolari che stanno vicine a noi. La casa credo sia della nonna, nella quale è confluito il resto della famiglia. Una di quelle situazioni di disagio che si diffondono sempre di più, e di cui i bambini spesso ne pagano le conseguenze.
“Spero che a scuola ne abbiate parlato bene. Diciamo che A. è meno fortunata di te. Se tu fossi nelle sue condizioni, forse faresti come lei. Perché qualche volta non la inviti a fare i compiti insieme a te?”
“Che vuol dire che è meno fortunata di me?” mi ha chiesto mia figlia, sdraiata sul divano, al caldo, in attesa che cuocessero le bistecche con il contorno di piselli e con in mano l’ipad.
“Vuol dire che forse lei non ha tutte le cose che hai tu. Vuol dire che lei, senza averne alcuna responsabilità, è nata e cresciuta in una situazione diversa dalla tua. Forse non ha l’ipad, i libri, non va a tennis, i genitori non l’aiutano con i compiti, forse adesso non ha nemmeno le bistecche da mangiare.”
“Ma lei parla poco con me. Mi chiede i compiti alla domenica sera e poi chiude subito il telefono.”
“E tu prova qualche volta a invitarla a fare i compiti qui, insieme a te. Bisogna sempre aiutare chi è meno fortunato. Non ti ricordi quando hai regalato il quaderno al tuo compagno di classe? Ma non vi insegnano proprio una mazza in quella lezione settimanale all’azione cattolica in preparazione della cresima? Cioè, gli educatori a parte sfoggiare gli smartphone, i vestiti, le scarpe e via dicendo, che cavolo fanno?” (non ho usato la parola “cavolo”…)
A questa domanda non ho avuto risposta, ma spero di avere almeno instillato il seme del dubbio…
P.S.: ogni tanto però di apre un barlume di speranza, in questo disgraziato Paese.
E no, eccheccazzo!
A volte basta un attimo per rimescolare la vita di un genitore, per rimettere in discussione le sue certezze e le sue capacità di educatore, di accompagnatore.
Basta che una sera ti metti a cercare quella vecchia carta che ti serve proprio per il giorno dopo e cominci a ribaltare giornali, riviste, bollette, ricette e scopri quei due foglietti di un quadernetto colorato.
Due foglietti scritti a matita da tua figlia: due pagine di un suo diario; di un diario forse mai proseguito; due pagine dimenticate, avvolte nell’oblio di una fanciullezza scanzonata, ingenua, ma forse già più problematica di quanto tu possa pensare.
Che faccio: leggo o non leggo?
In fondo quelle due paginette se ne stanno lì da mesi, perché sono datate settembre 2013 (e già, hai già iniziato a leggere…) e avrebbero benissimo potuto andare perse, stracciate più o meno inconsapevolmente.
Che faccio: leggo o non leggo?
Non puoi certo essere accusato di violazione della privacy, perché chi non vuole essere violato le cose le nasconde, mica le lascia in giro. O forse le lascia in giro proprio perché tu, prima o poi, le legga.
Che faccio: leggo o non leggo?
E comunque tu sei un genitore, mica il primo pincopallino qualunque e su quelle pagine sta scritto “dedicata al mio papà” ed è tuo dovere, sacrosanto dovere, sapere.
Ok, leggo.
E allora inizi a leggere e ti si gonfia il cuore di fronte a tutte quelle gentili, delicate, amorevoli espressioni che tua figlia, nel segreto delle sue confessioni, ti ha dedicato e già ti sembra che la tua vita sia migliorata, quando leggi quella frase, quelle poche parole che ti colpiscono dritto al cuore, che fanno franare le tue certezze, che sovvertono l’ordine di priorità che finora avevi dato alla tua vita e comprendi, in un attimo, di avere fallito.
E quelle parole ti resteranno nell’anima per sempre, indelebilmente marchiate a fuoco nel tuo orgoglio, ormai distrutto.
Quelle parole:
Papà, per me sei come il Milan, sempre nel cuore.
Come il Milan?????
👿
Vabbe’, consoliamoci con questa…
Il regalo inaspettato
E così è arrivato (e ormai anche trascorso) il tuo undicesimo compleanno.
Quando ti osservo mi accorgo di tutti i cambiamenti che vi sono stati, soprattutto in questi ultimi mesi.
Rivedo la foto di un giorno di settembre di cinque anni fa: una timida bambina che, al suo primo giorno di scuola, era passata a salutare il papà e la nonna.
Sono stati cinque anni esaltanti, ma anche difficili. Abbiamo fatto un sacco di cose insieme. Non so se sono stato un buon padre, ma questo hai e questo ti devi tenere.
Fra un paio di mesi dovrai iniziare una nuova avventura, ma stavolta non dovrai più passare a salutare il papà.
Stasera, in pizzeria, ti avevamo anticipato che, oltre allo smartufone (che si è rotto dopo dieci giorni dall’acquisto, confermando così in maniera inequivocabile la mia sfiga innata negli aggeggi tecnologici, ma tu non te la sei presa più di tanto), ai vestiti (ora da ragazzina, non più da giocatore di rugby…) e ai regali dei nonni, ne avresti ricevuto un altro.
Oggi hai cercato di farmi parlare, ma sono rimasto muto come un pesce. Come sei rimasta tu, in un primo momento, quando ti abbiamo detto che la mamma e il papà tornavano a vivere insieme; che saremmo tornati a vivere insieme tutti e tre.
Quindi ora la nuova avventura inizia per tutti.
Auguri, piccola.
P.S.: la vita non smette mai di sorprenderci…
AHI!(phone)
“Ora, dopo averlo comprato per te, è giunto il momento che anch’io mi prenda uno smartufone.”
“E cosa ti compri?
“L’AIFON!”
“Ma tu non puoi comprarti l’AIFON!”
“O bella, e perché no?”
“Perché lo volevo io!”
“Ti ho già spiegato che tu sei troppo piccola per un apparecchio complicato e costoso come quello.”
“E tu sei troppo vecchio per un telefono così moderno!”
👿
“Anzi no, compralo pure.”
“Oh, di grazia, e cosa ti ha fatto cambiare idea?”
“Così lo uso io.”
👿
👿
(Non so perché, ma ho l’impressione che i prossimi anni non saranno affatto facili…)
Anni fa, la NCCP tenne uno spettacolo nel piccolo teatro del nostro paese. Se ci penso, mi risuona ancora nelle orecchie questa.
Ultimo giorno di scuola
Oggi è stato l’ultimo giorno di scuola per la piccola.
Ma non è stato solamente l’ultimo giorno di questo anno scolastico. E’ stato anche e soprattutto l’ultimo giorno alla scuole elementari. Domani ci sarà una piccola appendice di mostre, saggi musicali, merende, ecc. che servirà forse a elaborare meglio questa circostanza.
I percorsi estivi si dividono come tutti gli anni, ma i bambini sono consapevoli che a settembre dovranno affrontare l’inizio di una nuova avventura.
Mi sembra ieri che ho scattato la foto in cucina a una bambina con un grembiulino nuovo che per i cinque anni successivi si sarebbe caricata sulle spalle uno zaino voluminoso quasi quanto lei.
Cinque anni che si sono intrecciati con vicende personali e familiari.
Cinque anni di compiti, disegni, pensieri, basket, pallavolo, tennis.
Cinque anni di crescita, di sogni, di speranze.
Cinque anni di vita, in sostanza. Che continua, verso nuovi traguardi. Insieme, finché sarà possibile.
La scuola dei bambini
Nell’immediato dopoguerra venne in Italia, a Rimini, una discepola di Piaget, pioniere della psicologia infantile.
Era convinta che il nostro Paese sarebbe risorto dalla distruzione e dall’odio se avesse creduto nei bambini. Per questo cercò di raccogliere dei fondi per costruire un asilo che funzionasse secondo gli insegnamenti del suo maestro.
Qualche anziano cittadino di Rimini ricorda ancora quella signora aggirarsi per il cantiere per accertarsi che i muratori collocassero le finestre a sessanta centimentri dal suolo. E quando le chiedevano spiegazioni di quella bizzarria, lei rispondeva: “Perché volete obbligare i vostri bambini ad alzarsi sulla punta dei piedi per vedere se fuori nevica, fate piegare la schiena alla maestra…“
Educare all’autostima un adolescente è indispensabile; dovrebbe diventare un principio pedagogico strategico fin dalle scuole dell’infanzia: il nostro metodo educativo dovrebbe essere fondato sulla promozione dell’autonomia, mentre troppo spesso è imperniato sulla depersonalizzazione dell’allievo, premiandone le competenze cognitive più basse:
“Hai capito?”
“Sì.”
“Allora ripeti.”
Il nostro sistema di apprendimento tende a non basarsi sul rafforzamento delle risorse individuali e perciò autonome di chi impara, ma sulla conferma delle capacità di chi insegna.
Paolo Crepet – Non siamo capaci di ascoltarli (Einaudi 2001)
Una merdaccia
Stasera mi sento una merdaccia.
Sì, proprio come il qui raffigurato ragionier Fantozzi (o Fracchia che sia).
Il motivo?
Ho sgridato la piccola. Una, due, tre volte. Finché lei si è arrabbiata e se n’è andata a letto, per la prima volta senza chiedermi di leggerle qualcosa (o di stare ad ascoltare quello che lei legge).
Mi sono sentito come una di quelle mamme paranoiche che rompono i coglioni ai figli. salvo poi lamentarsi che “non c’è dialogo”. Ettecredo che non c’è dialogo…
E a un certo punto le ho anche detto che secondo me le sue amiche sono più brave di lei e questo l’ha offesa.
Il fatto è che anche nelle sgridate non bisognerebbe mai perdere l’autorevolezza. Bisognerebbe puntare sul risultato, più che sulla forma.
Mi sono sentito un incapace, un inetto, un rompicoglioni. A un certo punto ho anche interrotto la comunicazione, e questo non andrebbe mai fatto (anzi, non bisogna mai farlo).
Devo stare più attento. Non devo mai dimenticare che devo accompagnare, devo aiutare.
E per la prima volta dopo tanto tempo mi sono chiesto se non siano proprio questi i momenti nei quali è meglio essere in due. Nei quali un genitore deve intervenire sull’altro correggendone le asperità, svolgendo un ruolo educativo anche nei confronti del proprio compagno, oltre che del figlio. I momenti nei quali occorre fare un gioco di squadra, insomma.
Ma da soli non c’è squadra. Non c’è nessuno a cui appoggiarsi, anche se questo non vale certo come scusante.
Per la miseria, mi sento veramente una merdaccia.
P.S.: stavolta il tag “teste di cazzo” è dedicato interamente a me.
La maestra d’inglese
“Papà, le maestre non sono mica normali.”
“Ma che dici?”
“Papà, la nostra maestra d’inglese quando ci fa entrare a scuola, prende per mano il primo bambino della fila, ma con due dita soltanto.”
😯
“Poi appena entra in classe, si pulisce le mani con l’amuchina.”
😯
“Poi a metà lezione apre uno scatolino, prende una caramella con un fazzolettino di carta e poi si pulisce ancora le mani con l’amuchina.”
😯
“E adesso che mi dici?”
“E’ sposata?”
“No. Ma perché ridi? Dimmelo, perché ridi?”
“Niente, niente…”
(Non potevo mica dirle con quali accorgimenti immaginavo che prendesse in mano… Sì, insomma, ci siamo capiti, no?)
😉