Il fascicolo della discordia
Nel numero de “le Scienze” di giugno c’è un articolo sul fascicolo sanitario elettronico.
O meglio, sui limiti del fascicolo sanitario elettronico com’è stato implementato finora, che si sonio manifestati soprattutto nel periodo dell’emergenza da Covid-19.
Il FSE è l’insieme dei dati e dei documenti digitali di tipo sanitario e sociosanitario generati da eventi clinici presenti e trascorsi, riguardanti un assistito. La informazioni vengono fornite e gestite dalle singole Regioni, per poi confluire in una piattaforma nazionale gestita dal Ministero dell’economia e delle finanze.
A distanza di quasi dieci anni dall’istituzione del FSE, però, scopriamo che il suo utilizzo è “a macchia di leopardo”.
Per esempio, da una interessante tabella pubblicata, risulta che le ASL che alimentano il FSE sono il 100% in Veneto, il 99,86% in Toscana, il 98,14% in Friuli e l’1,11% in Lazio, il 2% in Umbria e addirittura lo 0,20% in Calabria.
Sul fronte dei medici che utilizzano il FSE, stanno al 100% l’Emilia Romagna, la provincia di Trento, la Valle d’Aosta, la Sardegna, la Lombardia e il Friuli, mentre il Lazio sta al 5%, il Molise al 3% e il Piemonte all’1%.
Per quanto riguarda i cittadini che hanno attivato il FSE, al 100% stanno Lombardia e Sardegna; la provincia di Trento al 97%, Marche e Molise al 2% e Lazio e Basilicata all’1%.
Scarsi investimenti e un sistema “federale” inadeguato (dopo la riforma costituzionale del 2001) hanno accentuato difficoltà e differenze.
Durante l’epidemia da Covid-19 un sistema informativo Regioni-Stato strutturato per comunicare ex post informazioni e rendicontazioni si è trovato impreparato.
Ma gli investimenti futuri in materia dovranno concentrarsi soprattutto su un sistema di analisi del dato evoluto che permetta di fare apprendimento automatico. Ma qui mi fermo, lascio a chi ha competenze e voglia di approfondire l’argomento, che per quanto ho potuto capire potrebbe caratterizzare l’organizzazione della sanità del futuro.
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