Ti ricordi, papà? (La mia esperienza/speranza)
Ho comprato il libro, dicevo nel post precedente, nel 2005, appena uscito, interessato al tema trattato.
L’ho riletto oggi, dopo tre anni e alla luce di una situazione familiare diversa (avrei scritto “compromessa”).
Voglio partire dai paragrafi che, allora come oggi, mi hanno colpito maggiormente e che cito testualmente:
Quando sogna un uomo per la vita, ogni ragazza consulta la sua “mappa” dell’universo maschile, mappa che ha disegnato nel corso degli anni, reagendo ai pregi e ai difetti del padre. Ma cosa sia veramente un uomo, una donna lo impara soprattutto dalla madre che, in modo consapevole o no, le trasmette tutto ciò che di buono o di cattivo ritiene di aver ricevuto dai maschi: padre, marito, fratelli, amanti.
La paternità è dunque, paradossalmente, un affare di donne. Non solo la madre passa alla figlia le sue idee sugli uomini, ma decide anche, più o meno inconsciamente, la “dose” di padre che la figlia deve assumere. E’ la madre a stabilire lo spazio fisico ed emotivo che è disponibile a lasciare libero per consentire al marito di esercitare il mestiere di papà.
Nella diversità dei ruoli che uomo e donna rivestono all’interno della famiglia, qui ne viene rappresentato uno decisivo che deve svolgere la donna: è lei che tiene le redini della vita affettiva della famiglia.
Quello che il libro non spiega è cosa succede quando la donna non esercita pienamente questa funzione e lascia troppi “spazi liberi”, soprattutto quando questi ultimi attengono a spazi “essenziali” nella vita dei bambini.
Inoltre, quando il libro è stato scritto nel 2005 non era ancora uscita la legge sul cosiddetto “affidamento condiviso” nelle separazioni. In questo caso i figli si trovano a convivere, alternativamente, con entrambi i genitori e se questo evita che uno dei due venga dimenticato, pone comunque alcuni problemi ai padri che non devono più limitarsi a portare i figli in giro, al campo giochi, al cinema o in pizzeria. Vi dovranno invece convivere per interi periodi nei quali dovranno svolgere tutte quelle funzioni che non appartengono al loro “genere”: cucinare, pulire, lavare, stirare, ecc.
Se è vero (come temo) che i figli sviluppano la loro identità di genere osservando i genitori, nel mio caso temo una vera e propria catastrofe: mia figlia imparerà che chi va al bar a giocare a carte è la mamma, che è anche quella che si dimentica di darle la merenda al mattino per la ricreazione a scuola? Imparerà che è il papà che fa le lasagne e che le compra i vestiti?
Ma la cosa che più mi spaventa è l’adolescenza, quel periodo, cioè, nel quale si manifesta e si sviluppa il desiderio di indipendenza e si creano i conflitti per raggiungere questo obiettivo. Ho l’impressione che a quel punto il cosiddetto “affidamento condiviso” possa difficilmente reggere. Ovviamente molto dipende dal carattere dei ragazzi, ma la mia convinzione è che la separazione dei genitori rappresenti comunque un fattore di rischio.
Sperimento sulla mia pelle, giornalmente, quanto sia problematico il rapporto tra un padre e una figlia piccola. Quanto la figlia cerchi comunque una presenza femminile ma non nomini mai la mamma.
Sperimento giornalmente la difficoltà dell’indeterminatezza del futuro, la solitudine e quanto questo non debba trapelare nei rapporti con la bambina.
Avrei preferito un ruolo più “normale”, non c’è dubbio. Vi è, in questo periodo, una ricomparsa alla memoria di alcuni momenti della mia vita e una loro analisi spietata, che fa un male tremendo.
Ma questa è un’altra storia…
Domani è lunedì e quindi consoliamoci…
Ti ricordi, papà? (il libro)
“Padri e figlie, un rapporto problematico“, recita il sottotitolo del libro, scritto da Gianna Schelotto e uscito nella primavera del 2005.
L’ho comprato e letto quando mia figlia aveva tre anni e la mia era una situazione familiare “normale”.
L’ho riletto in questo fine settimana, quando mia figlia ha sei anni e la mia situazione familiare è cambiata.
Vorrei riassumere brevemente i contenuti del libro e metterli a confronto, poi, con la mia esperienza personale.
La prima storia d’amore di una donna è quella con il proprio padre e spesso è anche la più complicata. Per crescere, la bambina deve staccarsi dall’unione simbiotica con la mamma, concepire un sentimento profondo per il papà e poi accorgersi che a quel sentimento occorre porre dei limiti. Dall’andamento di questa vicenda dipenderà in larga misura quello degli amori successivi.
Il padre non è meno importante della madre nel formarsi dell’identità femminile.
Se nell’amore materno il figlio si imbatte ancor prima di nascere, quello paterno non è invece un dato acquisito, ma è un processo che cresce, si costruisce e si trasforma negli anni.
La voglia di padre accompagna le donne in ogni momento della loro vita, perché dal padre la bambina impara a conoscere il mondo: il genitore “diverso” diventa per la bambina fonte di scoperte e di meraviglie.
Quando sogna l’uomo della vita, ogni ragazza consulta la sua “mappa” dell’universo maschile, che ha disegnato nel corso degli anni reagendo ai pregi e ai difetti del padre. Ma cosa sia un uomo la donna lo impara soprattutto dalla madre (ahimè!), che passa alla figlia le sue idee e che decide anche la “dose” di padre che la figlia deve assumere. E’ la madre, cioè, a stabilire lo spazio fisico ed emotivo che è disposta a lasciare libero per consentire al marito di esercitare il mestiere di papà.
Dopo la fase dell’innamoramento dei primi anni, vi è il distacco dell’adolescenza, quando la ragazza si aspetta che il padre le conceda il “visto” per oltrepassare la frontiera della femminilità, cioè a diventare donna, senza che questo sia uno strappo.
Un padre amorevole e disponibile consente alla bambina di muovere i primi passi con il mondo maschile, diventa cosciente del proprio valore, riceve conferma della propria femminilità e rafforza la percezione che ha di se stessa.
Se questo non accade, le figlie possono rassegnarsi all’indifferenza e inventare diversi modi per attirare l’attenzione del padre, reprimersi anche per adeguarsi ai suoi desideri, oppure sviluppare sentimenti ostili e astiosi. In entrambi i casi accumulano un fortissimo bisogno di risarcimento affettivo, chiedendolo a mariti e fidanzati che non possono darglielo.
Dal rapporto tra madre e figlia dipende, attraverso l’imitazione, il progressivo formarsi dell’identità di genere, per cui il padre, pur protettivo e premuroso, deve avere slanci affettivi che rimangano nei confini dell’identità maschile, perché è di questo che le figlie hanno bisogno.
C’è tutto un capitolo del libro (il più lungo) dedicato alla disgregazione della famiglia, “Quando il padre se ne va“.
Le immagini di amore e di relazione ereditate dai genitori giocano un ruolo importante nelle persone adulte, che trasformano quel patrimonio emotivo e lo utilizzano nelle relazioni di coppia.
Se nel complesso di Edipo vi è il desiderio di separare i genitori e prendere il posto di quello che viene scacciato, nella separazione questo desiderio diventa realtà che può portare ansie e sensi di colpa. Se poi il genitore desiderato si sceglie un’altra persona come compagna, la sofferenza diventa ancora più acuta.
Il padre e la madre, uniti o separati, rimangono i pilastri insostituibili della crescita umana e i genitori devono garantire ai figli la sicurezza di sentirsi amati.
Considerato che spesso (perlomeno all’epoca del libro) nei divorzi i figli vengono affidati alla madre, per le femmine, che perdono l’oggetto del loro amore (cioè il padre), la situazione diventa più gravosa rispetto ai maschi. Questi ultimi, infatti, realizzano il sogno di avere la mamma tutta per loro, sia pure con gravi danni per la loro maturazione. Le figlie possono sviluppare sentimenti di demolizione o di idealizzazione nei confronti dei padri separati.
Il libro dedica un capitolo anche ai “padri incestuosi” e, alla fine, una bella immagine che racchiude efficacemente tutto il ragionamento: le figlie per crescere hanno bisogno di sciogliere le proprie dipendenze e di allontanarsi dall’universo paterno, portando con sé i doni che il padre ha assegnato loro per il lungo viaggio.
Il libro contiene diverse storie derivate dall’esperienza di psicoterapeuta dell’autrice e non svelo il significato del titolo: si apprende in uno degli ultimi capitoli e lascia… senza parole.
Due piccole curiosità per finire.
Pirandello visse in maniera drammatica il distacco della figlia: le scriveva lettere strazianti nelle quali la pregava di tornare da lui, la supplicava con una ossessività ricattatoria: “Se non torni – le scriveva – non mi trovi più!”.
La figlia di Georges Simenon, invece, si suicidò nel 1978 perché l’innamoramento verso il padre divenne un sentimento distruttivo. “Ti amo così tanto che lotto per riuscire finalmente a esistere” ma da quella lotta uscirà sconfitta: “Non sono più niente, per me non c’è posto. Salvami papà. Sto morendo”.